INTERVISTE E CONFRONTI: Leonardo Dalla Torre, artista visivo
Spazio ppp: Ciao Leonardo, cos’è per te la pittura?
Le immagini colmano le mie giornate e la mia quotidianità sin da quando ho ricordo, così come il soffermarmi sull’osservazione di singoli dettagli, quasi fossero dei frame estrapolati da un video in perpetua riproduzione, a rappresentazione, sintesi e raccolta di un ricordo o un’esperienza. Parlo di incarnazione poiché quando dipingo tali effigi non si limitano alla loro manifestazione nella forma, bensì si stratificano e si concretano nelle infinite espressività della materia pittorica, che cerca non solo di emulare appunto un elemento, ma di raccoglierne tattilmente e tridimensionalmente le peculiarità.
Sppp: Osservando le tue opere si possono percepire certe influenze, atmosfere, chi sono gli artisti o i maestri a cui maggiormente rivolgi la tua ricerca?
LDT: La mia ricerca guarda sovente a tutta la pittura del passato: ho cercato di apprendere ed evolvere la tecnica copiando dipinti appartenenti alla Storia dell’Arte, intuendo e tentando di cogliere i processi tecnici adoperati. In tal senso ho guardato molto Raffaello, Memling, Pontormo, Caravaggio, Reni, De Ribera e tutta la produzione dei Maestri dal Quattrocento al Seicento. Nello scenario contemporaneo guardo il lavoro di Samorì, Frani, Kiefer, Börremans, De Cordier, Currin, Schinvald, De Bruyckere.
Sppp: Hai da poco chiuso la tua personale “Veder venire” in collaborazione con NP Artlab negli spazi veneziani di Tommaso Calabro, in cui i termini presagio, crisi e catastrofe sembrano essere il cuore pulsante di questa nuova serie di opere. Avresti voglia di parlarcene?
Quello che vedo è che le immagini spesso cercano di condensare ed eternare un sentimento di assolutezza, inespugnabilità, che nella pittura sacra, alla quale sono molto interessato, è ancora più imperterrito che in altri contesti. Nonostante questo, ciò che scorgo negli sguardi di Santi o Madonne stagliati nelle pale d’altare o nelle nicchie votive è tutt’altro che eterno, semmai sull’orlo della crisi. La materia è parte del tempo; i corpi come i dipinti si consumano e si disperdono, quello che rimane è uno sforzo vano di eternità. Il suo fascino risiede nell’esistere in quel momento, ma senza tradire la sua natura caduca, mostrandosi come una scorza separata dal frutto, ancora vivida e pulsante di colore subito prima di annerire ed infine estinguersi. Io cerco di rappresentare la difformità, il sintomo che accompagna e identifica quella precarietà, senza permettere all’immagine di adagiarsi in una presunta condizione di stasi.
Sppp: In un recente scambio abbiamo parlato del come un non-veneziano sogni di vivere a Venezia, rispetto alla realtà dell’esserci nato e dell’unicità di questa esperienza. Pensi che questo abbia condizionato la tua poetica e il tuo approccio alla pittura? Se sì, in che modo?
LDT: Credo che nessuna città al mondo quanto Venezia rappresenti e si identifichi nella caducità, un’impressione che ai miei occhi risalta ancora maggiormente proprio grazie alla sua bellezza così manifesta, che si cerca di ostentare al di là della sua più che palese fragilità. In tal senso è pullulante di quei segni traditori, quei sintomi che ammoniscono e che in modo macabro, quasi collaterale, la adornano. La mia pittura è fortemente influenzata da questo ambiente, nel quale ogni giorno si rispecchia e del quale si nutre.
Sppp: Ci sono nuovi progetti a cui stai lavorando e di cui ci vorresti parlare (o che vorresti e non hai ancora avuto modo di realizzare)?
Mentre rispondo a questa intervista sto nuovamente affrontando il tema del corpo, nello specifico il Primo corpo, quello della Genesi, un tema dove pittura e carne dialogano e si (ri)creano vicendevolmente.
Mi piacerebbe anche tornare al tema della natura morta, che ho affrontato in rare occasioni e con il quale vorrei nuovamente interagire; indagando nuovi modi di sacralizzare ciò che si percepisce come usuale, ricercandone una celata bellezza.
Fracta, 2023, olio su tavola, 30 x 20 cm |