Interviste e confronti: Giorgio Lorenzo Beltramo, ricercatore e autore

 


SpazioPPP: Ciao Giorgio, ci descriveresti il tuo campo di indagine e di ricerca?
 
Giorgio Lorenzo Beltramo: Ciao e grazie, innanzitutto, per la proposta di questa intervista, di cui sono onorato e che mi ha piacevolmente sorpreso.
Lo SpazioPPP è un luogo di collaborazione artistica, ed io sono forse fuori posto, come aspirante filosofo: fu il più famoso filosofo di sempre, dopo tutto, a teorizzare la cacciata dei poeti dalla città; e già il suo maestro si opponeva ai sapienti, agli artisti e agli artigiani, in quanto filosofo. Eppure, proprio Platone mostra una pratica letteraria raffinatissima, e Socrate un'arte retorica senza eguali. L'illusionismo filosofico ha già irretito nella sua nuova via, ambiguo come tutti gli inizi. È forse per questo che servono dei maestri per il percorso.
Mi spinge una forte passione per il sapere. Sono dottorando in Filosofia del diritto all'università di Torino e in Letteratura generale e comparata all'università di Nantes, in Francia. La mia tesi di ricerca s'interroga sulla creazione del mondo giuridico, cioè sulla messa al mondo del mondo così come lo conosciamo, in quanto membri di una società. Un'immagine evocativa, che amo usare, è quella del mondo narrativo: un ambiente di finzione, modellato ad hoc, perché i personaggi e la storia possano svilupparsi. Anche il diritto è un'ambientazione, una scrittura del mondo: è un discorso, o una rete di discorsi, che in-forma il nostro ambiente di vita. Con la piccola differenza che il diritto pretende di essere non un semplice racconto fantastico, bensì reale. Non è forse vero che abbiamo, noi tutti, i nostri diritti? Non ci riconosciamo forse nella nostra identità pubblica?
 


SPPP: Come docente e studioso della Filosofia del Diritto, come descriveresti l'importanza e il ruolo della figura del Maestro, inteso come guida intellettuale in relazione ad una data comunità?
 
GLB: Provo a partire da qui: la formazione dell'umano è il grande compito dell'umanità.
Uno dei concetti giuridici più importanti oggi è quello di dignità. Come tutti i concetti, non viene dal cielo: ha una sua genealogia, cioè una sua storia; il che significa che ha una nascita e avrà anche una morte, prima o poi. (Guai a fare di un concetto un idolo). Problematico è il rapporto tra dignità e umanità: è un'uguaglianza? Ma basta uscire (si fa per dire) dalla nostra cultura per comprendere che è problematico anche il concetto stesso di umanità. Non è indifferente il luogo e il tempo in cui si nasce. Noi guardiamo tutto dal qui e ora, dal nostro mondo; e ci dimentichiamo che il mondo non esiste fuori dalle nostre scritture di mondo. Noi abbiamo scritto che "la dignità umana è inviolabile" e che il suo riconoscimento è "inerente a tutti i membri della famiglia umana". Per fare il salto di quel riconoscimento ci sono voluti non pochi maestri; ma sempre all'interno di una vita sociale, ciascuno nel proprio mondo pubblico.
Io ho grande fiducia nei miei maestri. La filosofia è un percorso pericoloso, perché non è una conoscenza ma un abito di vita: quello che i greci chiamavano ethos, da cui l'etica. Sarebbe audace dare in pasto a un adolescente un pensiero radicale come "una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta", per citare una delle frasi con cui nasce la filosofia: potrebbe giungere alla decisione sbagliata. La domanda sul senso è sempre una domanda limite; essa va perciò frequentata con serietà e accortezza, che sono poi le virtù che cerchiamo nel maestro, insieme con l'affetto.


 
SPPP: Ci parleresti del tuo pensiero rispetto al concetto di "identità" e del problema del riconoscimento?
 
GLB: Confesso il mio peccato originale in tema di identità: l'antropologia culturale. Mi spiego. La mia tesi di laurea in giurisprudenza ha ragionato sul concetto di finzione e creazione (due concetti sinonimi se li si pensa in latino e greco: fictio e poiesis). Detto in soldoni, analizzavo il diritto come qualcosa che si fa - cioè si finge, si plasma - in una società, ma anche come qualcosa che ci fa, noi "animali sociali". Ho così fatto dialogare un pensiero giuridico sulla finzione del diritto con un pensiero antropologico sul fare umanità.
In questo dettaglio si nasconde il relativismo della mia prospettiva: che legge cioè ogni umanità come relativa alle sue forme di vita. Sono dunque molto distante dall'idea di un'identità come sostanza o essenza dell'essere umano (tutti concetti non neutri né universali, come ho già suggerito). Trovo invece interessante ragionare in termini di riconoscimento, come in antropologia culturale fa Remotti, per esempio. Fuori dalle pratiche di riconoscimento - che possono essere anche scritture giuridiche di mondo, come la nostra - non si dà identità né dignità alcuna. Dunque, ancora una volta, è l'educazione, l'istituzione dell'uomo ad essere determinante: è un abito culturale quello che dobbiamo apprendere. Non c'è repubblica senza paideia.
 


SPPP: Secondo te qual è il ruolo dell'artista/filosofo nella società di ieri e di oggi?
 
GLB: Un filosofo francese caro al mio maestro chiama i giuristi "artisti della ragione". Occorre fondarla, la ragione, essa non nasce come un fungo. E non si creda, noi occidentali figli di Aristotele e del suo mirabile organon logico, che ne esista una sola. Sini in Italia ha magistralmente indagato il rapporto tra la scrittura alfabetica e il pensiero occidentale. Altre pratiche fondano altre ragioni e "incidono" il mondo diversamente. E forse proprio i giuristi, come dice Legendre, s'accorgono dell'artificio più di altri: con le mani in pasta nell'inadeguatezza della iuris prudentia.
Credo che l'artista e il filosofo servano la società, nel senso che le offrono un servizio prezioso. La filosofia è quel pensiero critico che pungola; ma per essere vera filosofia e non mera metodologia, deve indagare sempre anche se stessa: chi sono io? L'arte frequenta a suo modo la soglia estetica col non dicibile e il limite dell'espressione in ogni forma.
Per come vivo io la filosofia e l'arte (Il quotidiano sconosciuto è la mia prima e attualmente unica opera letteraria pubblicata; ma non è di questo che parliamo oggi), esse hanno un telos, un fine pubblico. Forse non si può e non sarebbe nemmeno giusto chiedere all'artista di esserne anche consapevole; credo invece che il filosofo debba rispondere al suo ruolo sociale, se non altro per amore del sapere.
 


SPPP: Se consideriamo la filosofia come una pratica (anche di vita), credi sia possibile oggi "vivere" da filosofo?
 
GLB: Qualsiasi pratica sopravvive nel suo divenire, finché può. Sarà la vita pubblica a decidere della sopravvivenza della filosofia: sarà cioè il fare di tutti e di ciascuno. Vivere da filosofo è forse vivere nella ricerca, come leggevamo prima, sorpresi da una tale radicalità di pensiero: se no, tanto vale! Ma è evidente che non si possa etichettare quello che per Platone è un fuoco che brucia: lo si può forse mostrare, con le proprie azioni e i propri discorsi, con un atteggiamento. Ancora una volta (e in modo molto simile all'arte), ci vogliono dei maestri e ci vuole la passione.
Io sono molto preoccupato dai segnali politici del nostro tempo in tema di educazione. Scienza e tecnologia attirano sempre più speranze e capitali, e sono promossi a nuovo modello formativo (ma forse "standard informatico" rende meglio l'idea). Le scuole e le facoltà si organizzano su indici di efficacia e di mercato, ossia su valori quantitativi. Eppure, scienza e tecnologia non risponderanno mai alla domanda sul senso, per il semplice fatto che non è una domanda traducibile in problema: dunque non ha una soluzione, va percorsa. La scienza ci abitua ad un pensiero procedurale, complicato nel suo tecnicismo, facile ed efficace nei suoi prodotti tecnologici; perfettamente integrato col mercato nel mito del progresso. Eppure, la semplicità della domanda esistenziale non ammette metodi di risposta, né s'illude sulla sua verità: anzi, verità ed errore sono lo stesso, come abbiamo imparato da Hegel, nel senso che la verità si dispiega nel suo transitare di errore in errore.
Con ciò, sarei io dunque il filosofo che abita le nuvole e che non vede l'utilità della tecno-scienza? Sarei davvero uno sciocco. Al contrario, ho fiducia nell'efficacia della scienza. Ma la repubblica non è una tecnica sociale, né una verità da imparare a memoria. E tanto meno lo sono la felicità e il senso. Se è questo che vogliamo raggiungere, allora siamo già nella domanda: il resto è distrazione.